5.
Un antiquario detective
L’acchiappasogni tintinnò lievemente sopra la porta del negozio all’angolo di vicolo Voltaire, al piano terra del palazzo dove abitavano i fratelli Gaillard. Era un negozio stretto e lungo, dalle vetrine profilate di legno con i vetri opachi. L’insegna diceva: Barduchon - Collezioni - Rarità - Antichità.
Annette e Fabò entrarono e richiusero la porta facendo tintinnare di nuovo l’acchiappasogni.
— Arrivo subito! — disse una voce oltre una tenda tirata dietro il bancone. Sul piano di legno scuro torreggiavano statuine di ballerine, un telefono di ottone e una vecchia cassa per gli scontrini, con i tasti rotondi e consumati dal tempo.
Il figlio della signora Barduchon apparve poco dopo, con indosso un paio di guanti di plastica arancione. In mano aveva uno straccio giallo e il suo volto era segnato da un leggero affanno. — Ehi, ragazzi, siete voi! — esclamò rilassandosi di colpo. — Meno male, temevo che fosse già arrivato il signor Pouillon a ritirare il comò... Lo sto ancora oliando, ma non sarebbe la prima volta che si presenta un paio d’ore in anticipo.
— Ti posso aiutare? — domandò Fabò, che adorava passare il tempo con il figlio della signora Barduchon a restaurare vecchi mobili con lo stucco per il legno, ad aprire casse piene di libri antichi e a controllare sui cataloghi il valore di montagne di monete e francobolli che arrivavano in negozio da tutto il mondo.
— È una cosa da niente. E poi ti sporcheresti le dita d’olio.
— Credo che sia per questo che te l’ha proposto scherzò Annette.
Il figlio della signora Barduchon sorrise. Era davvero impossibile dargli un’età: poteva avere diciotto come quarant’anni. Era di statura media, con la faccia rotonda e i capelli biondi, finissimi e sottili, pettinati con la riga di lato. Indossava sempre e solo completi di velluto: pantaloni chiari passati di moda da una quindicina d’anni, una giacca con le toppe sui gomiti e un maglioncino di lana con lo scollo a “V”, che lasciava scoperta una camicia invariabilmente a quadretti e un farfallino vezzoso. Completavano il quadro un perenne sorriso e un paio di grossi occhiali dalla montatura di tartaruga, dietro cui galleggiavano i suoi vivaci occhi azzurri.
— Non mi dite che avete già risolto l’Enigma del Mese? — chiese, passandosi la mano sulla nuca, come faceva spesso. Poi, quando si ricordò di avere i guanti sporchi d’olio, si fermò.
— Niente paura. Siamo ancora in alto mare — lo rassicurò Fabò.
Si erano conosciuti proprio grazie alla passione comune per i casi di King Ellerton. Il figlio della signora Barduchon era un appassionato di libri polizieschi, e, grazie al suo lavoro di rigattiere e antiquario, aveva trovato per i fratelli Gaillard alcuni dei più vecchi casi del loro investigatore preferito. Da allora, ogni volta che i ragazzi avevano un pomeriggio libero, oppure pioveva troppo per andare a tirare due calci al campetto rionale (nel caso di Fabò), o per uscire con le amiche (nel caso di Annette), il negozio era diventato la loro seconda casa. Fabò chiedeva sempre di lavorare con i mobili; Annette preferiva sistemare le collezioni di vecchie bambole di porcellana o i manifesti di spettacoli teatrali degli anni Cinquanta.
— In realtà siamo venuti a parlarti... di un caso! — rivelò Fabò.
— Un caso? — gli fece eco il giovane Barduchon, stupito.
— Il signor Deloffre. Lo conosci?
— No. Mai sentito nominare.
— È sospettato di avere ucciso i suoi padroni di casa con una bottiglia di sidro avvelenato.
— Con l’acido prussico.
— Per mille archibugi! — esclamò il figlio della signora Barduchon. — E voi come fate a saperl... Ah, già, naturalmente. Devo ancora fare i complimenti a vostro padre per la promozione a commissario capo.
— È qui il bello — disse Fabò.
— Già. Noi abbiamo pedinato Deloffre prima di sapere che fosse sospettato di un omicidio.
Negli occhi del figlio della signora Barduchon passò una scintilla di pura passione investigativa. Poi alzò lo sguardo per controllare l’ora sul quadrante dell’orologio da stazione che aveva appeso sopra il bancone e sospirò: — Facciamo così. Venite nel retro a raccontarmi tutto mentre io finisco di lucidare il comò di Pouillon, vi va?
I fratelli Gaillard non se lo fecero ripetere due volte.
Quel pomeriggio, intorno alle cinque, quando il sole ormai si preparava a calare e la ville lumière cominciava ad accendere le sue mille luci, il figlio della signora Barduchon consegnò il comò lustrato di tutto punto al signor Pouillon, poi appese alla porta l’insegna Chiuso e si mise a riflettere.
Si sedette sulla poltrona scozzese che aveva sistemato nel retro del negozio, prese la pipa originale inglese del 1888 e finse di fumarla. In realtà, se avesse provato ad accenderla avrebbe tossito per una buona mezz’ora. Era solo un modo per somigliare il più possibile al grande King Ellerton.
— Ogni grande investigatore ha bisogno di un assistente... — mormorò seguendo il flusso dei suoi pensieri. — E non è detto che l’assistente sia una persona sola.
Il figlio della signora Barduchon ricordava perfettamente che anche il grande Sherlock Holmes, con l’assistente Watson, responsabile della trascrizione di tutte le sue avventure, si serviva di un banda di teppisti di strada, gli Irregolari di Baker Street.
Era già successo, quindi.
«I fratelli Gaillard...» pensò il figlio della signora Barduchon. «Svegli, capaci, pieni di entusiasmo... Le due tessere che mancano a questo mosaico!»
Il giovane depose la pipa e si alzò dalla poltrona. Continuando a riflettere, salì le scale sul retro. Si affacciò sul cortile centrale per assicurarsi che le finestre del primo piano fossero chiuse come sempre, quindi si diresse al secondo piano.
— Mamma? — chiamò entrando in casa.
Ricevette come risposta un lontano canticchiare.
Raggiunse la cucina seguendo un delicato profumo di vaniglia, cannella e limone e trovò sua madre immersa fino ai gomiti in un impasto di farina, che ricopriva buona parte del tavolo.
— Stavo facendo una millefoglie — disse la signora Barduchon con un sorriso.
Il figlio cominciò a prepararsi un tè caldo, mettendo sul fuoco un bollitore color rosso fuoco.
— I piani sono cambiati, mamma...
— Cambiati in che senso?
— Ci sono alcune novità. Credo che... dovremo accelerare i tempi.
— Mi pare una buona idea. D’altra parte, immagino che ormai sia tutto pronto, no?
— Non esattamente. Io e Lalou volevamo prenderci ancora un paio di settimane per ultimare alcune cose, ma...
— Ma è successo qualcosa.
— Esattamente. Quindi dobbiamo fare tutto prima. Per te sarebbe un problema?
La donna rise. — Nessun problema. Quando vuoi partire, partiamo.
La signora Barduchon era piccola ma corpulenta, con i capelli raccolti in una crocchia sulla nuca, le mani forti e i polsi robusti. I suoi occhi tradivano un’intelligenza pratica e la conoscenza del buon senso popolare, quello fatto per metà di cose concrete e per l’altra di chiacchiere furibonde, da snocciolare nei giorni di mercato.
— Oggi? — sussurrò suo figlio.
La signora Barduchon si mise le mani infarinate sui fianchi coperti dal grembiule. — Oggi? Devi darmi il tempo di finire la torta, però. Venti minuti di preparazione e poi un’ora e mezzo di forno. Se vi va bene mangiarla calda...
Il figlio rifletté. — Sarebbe perfetto — concluse, alla fine, con aria soddisfatta.
Si versò il tè, poi aprì una cartellina gialla che conteneva un foglio su cui aveva scritto:
Club del brivido?
Gruppo dei segugi?
Società investigativa vicolo Voltaire?
Controllò i nomi che aveva annotato con la sua calligrafia minuziosa, poi scrisse: Annette e Fabò Gaillard. Assistenti.
Sorseggiò un po’ di tè e aggiunse: Investigatori?